Quanto sia grave la situazione dell’industria italiana è spiegato da una sigla: Kkr. Il fondo americano cui il governo di Giorgia Meloni sta decidendo di cedere una quota importante della rete di Tim, strategica per la difesa nazionale e per la gestione dei dati, è lo stesso che ha deciso la chiusura dello stabilimento Magneti Marelli a Crevalcore. La storica azienda di componentistica per automobili che un tempo fu della Fiat di Gianni Agnelli ha perso terreno sul mercato a causa della transizione ecologica. C’era tempo per convertirla, se si fosse preso il toro per le corna e costruito un settore adeguato alle nuove esigenze..........


 

Quanto sia grave la situazione dell’industria italiana è spiegato da una sigla: Kkr. Il fondo americano cui il governo di Giorgia Meloni sta decidendo di cedere una quota importante della rete di Tim, strategica per la difesa nazionale e per la gestione dei dati, è lo stesso che ha deciso la chiusura dello stabilimento Magneti Marelli a Crevalcore. La storica azienda di componentistica per automobili che un tempo fu della Fiat di Gianni Agnelli ha perso terreno sul mercato a causa della transizione ecologica. C’era tempo per convertirla, se si fosse preso il toro per le corna e costruito un settore adeguato alle nuove esigenze.

Ma ciò non è stato e ora come premio Kkr avrà pure la rete di Telecom Italia, sempre che il socio Vivendi decida di dare il via libera all’operazione. Ma una volta che saranno proprietari della rete, pur in coabitazione con la Cdp guidata da Dario Scannapieco, gli americani decideranno anche la sorte dei suoi dipendenti?

È una domanda che il nostro esecutivo deve porsi, come deve anche fornire risposte ad altri casi incagliati, cui Milano Finanza dedica un approfondimento in queste pagine. Partite che coinvolgono il destino di oltre centomila dipendenti diretti e oltre un milione nell’indotto.

Tim, Ilva, Alitalia, Fiat

I loro nomi sono noti a tutti almeno nelle loro vecchia accezione. Oltre alla rete Tim, già Sip, colosso telefonico che occupa 40.000 dipendenti in Italia e che dovrebbe appunto operare una scissione della sua infrastruttura principe che arriva nelle case degli italiani ci sono altre tre aziende dal futuro molto incerto. Si tratta dell’ex Ilva, ora Acciaierie d’Italia, presieduta da Franco Bernabè, sempre in attesa di svoltare per una nuova vita con il socio indiano Mittal (4.000 dipendenti e un’intera città, Taranto, alle sue dipendenze) ma incagliata in pastoie burocratiche e quasi priva di cassa.

Poi c’è il caso di Ita, ex Alitalia, che dovrebbe andare in sorte ai tedeschi di Lufthansa, sempre che il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti non decida alla fine di affidarla anche alle cure di Gianluigi Aponte, patron di Msc e vicino anche ad acquisire Italo. Infine poco si sa di Stellantis, l’azienda automobilistica nata dalla fusione tra Fca e Psa, nome e trazione molto francesi tanto che da tempo la Fiom è in subbuglio in tutti gli stabilimenti della penisola per la sorte degli operai. L’ex Fiat nel nostro Paese occupa per la precisione 50.000 persone ma nulla si sa del progetto che il ministro dello Sviluppo Adolfo Urso aveva promesso, insieme al leader di Exor John Elkann, per arrivare a produrre un milione di auto in più aprendo anche una gigafactory come avvenuto in Francia e Spagna.

Il destino dell’industria italiana

Le nubi sul sistema industriale nazionale, un pezzo della storia d’Italia e del suo boom economico -costruito grazie alla produzione di auto, aerei, acciaio e telefoni- appaiono appese a un filo ma soprattutto nelle mani di altri. Il caso automobili è emblematico: si rischia il deserto.

Paolo Scudieri, ex presidente di Anfia, l’Associazione della filiera automobilistica, a capo del Gruppo Adler Hp Pelzer, uomo di peso in Confindustria, è molto preoccupato come d’altronde anche Luca Cordero di Montezemolo, suo amico e presidente del Lingotto che fu. «L’Italia è un territorio come Polonia, Spagna, Romania e Slovacchia, dove insistono stabilimenti che costruiscono autoveicoli. Ma da noi non si fanno piani e strategie per il settore auto poiché oggi Stellantis -unico produttore mass market- non è più radicato alla storia italiana. Anzi, l’Italia è un retaggio ingombrante e poco remunerativo», si accalora Scudieri parlando con questo giornale.

Certamente si può ancora ovviare al disastro grazie all’intelligenza e alla capacità italiana perché «fanno eccezione fortunatamente le eccellenze automobilistiche con i brand più blasonati del mondo e una componentistica competitiva e innovativa». Scudieri non crede che il mondo sarà solo delle auto elettriche, care e irraggiungibili ai più, ma serve uno scatto. «Il movimento ideologico che si basa solo sulla alternativa elettrica sta consumando la fase ideologica più acerba e ottusa, bisogna cavalcare le tecnologie alternative per poter arrivare a una transizione ragionata e vera. Oggi l’auto elettrica è uno status radical chic ancora lontano da una fruibilità di massa, ma ci sarà sempre l’auto del popolo a patto che Bruxelles maturi la ragionevolezza necessaria e dia la possibilità di utilizzare carburanti alternativi senza preclusioni».

La ragionevolezza è un tema che vale anche per gli altri settori e per i centomila dipendenti coinvolti in attesa di giudizio. Ci sarà? 

di Roberto Sommella per "milanofinanza.it"

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