Le somme destinate al Santo Padre ma sottratte dagli imputati per indebitarsi «per impiegarle in investimenti speculativi, vanno restituite e messe nella piena disponibilità del Pontefice per le necessità della Chiesa». Dunque i fondi vanno depositati nuovamente presso lo Ior. Così chiede l’avvocato Roberto Lipari, che assiste la banca vaticana nel processo in corso in Vaticano sugli investimenti della Segreteria di Stato. .........

 


Le somme destinate al Santo Padre ma sottratte dagli imputati per indebitarsi «per impiegarle in investimenti speculativi, vanno restituite e messe nella piena disponibilità del Pontefice per le necessità della Chiesa». Dunque i fondi vanno depositati nuovamente presso lo Ior. Così chiede l’avvocato Roberto Lipari, che assiste la banca vaticana nel processo in corso in Vaticano sugli investimenti della Segreteria di Stato. 

Per giunta, il danno di immagine subìto dal Vaticano nella compravendita fallimentare del Palazzo di Sloane Avenue a Londra, costato almeno un centinaio di milioni di euro dell’Obolo di San Pietro, è quantificato in una forchetta fra 98,5 milioni di euro e un massimo di 177,8 milioni. Calcolando un valore equo per una campagna di riabilitazione dell’immagine della Segreteria di Stato si arriva a 138 milioni. Valore per cui il Vaticano chiede conto a monsignor Angelo Becciu, ex prefetto della Congregazione delle cause dei Santi che, all’epoca, era sostituto per gli Affari Generali della segreteria di Stato. Ma anche ai broker, ai prelati e ai mediatori con lui imputati: monsignor Mauro Carlino, René Brülhart, Enrico Crasso, Tommaso Di Ruzza, Cecilia Marogna, Raffaele Mincione, Nicola Squillace, Fabrizio Tirabassi, Gianluigi Torzi. 

Gran parte dei soldi da recuperare, in caso di condanna degli imputati, arriveranno dalla confisca dei beni già sequestrati a Raffaele Mincione, per circa 60 milioni di euro, Enrico Crasso, Gianluigi Torzi e al funzionario della segreteria di Stato, Fabrizio Tirabassi. 

I reati contestati

Il reato di peculato, o meglio il guardare allo Ior come un bancomat, «che doveva sempre rispondere positivamente alle loro richieste, ha offeso il sacrificio di chi ha donato le offerte alla Chiesa». Difatti la base primaria per il sostenimento della Santa Sede è la carità dei fedeli, che quindi non è ammissibile alcun tipo di investimento speculativo. Nondimeno «offeso dalle condotte degli imputati è il Santo Padre» essendo stata vanificata la destinazione al Papa dei 700 milioni di euro erogati negli anni dall’Istituto per le finalità del Pontefice e accantonati dalla Segreteria di Stato.

Dal reato di peculato scaturiscono poi tutti gli altri reati contestati ai 10 imputati: dall'abuso d'ufficio all'estorsione, dalla truffa all’appropriazione indebita, fino al riciclaggio, all’auto-riciclaggio e alla subornazione di testimone. Tradotti in tentativi di arricchimento personale, progetti di estrazione petrolifera in Angola, «in ricorso a strumenti finanziari nei quali l'amministratore di beni ecclesiastici perdeva ogni possibilità di controllo e l'impiego del denaro della Chiesa senza alcun controllo e accuratezza tutto in gestito in modo autoreferenziale da un monsignore esperto in diritto canonico e un commercialista privo di qualsiasi esperienza in investimenti finanziari». Il difensore della parte civile ha poi aggiunto, nelle sue quattro ore di arringa, che «abbiamo visto l'impiego di soldi senza due diligence, abbiamo visto ricatti estorsivi, abbiamo visto interni solidarizzare con gli estorsori, abbiamo visto ingenti risorse economiche gestite senza tenere conto dei vincoli imposti dai donanti».

Presto la parola alla difesa

Il processo aperto nel luglio di due anni fa sulla gestione dei fondi della Santa Sede, ripreso dopo la pausa estiva, darà spazio alle repliche delle difese degli imputati con quindici udienze, dal 5 ottobre al 6 dicembre


di Silvia Valente per "milanofinanza.it"

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